Conviene investire nel cinema o meglio programmare un’app?

Cinematografari di tutto il mondo, svegliatevi! Sembra che la settima arte stia lentamente decadendo a favore dell’ottava: il web.

So cosa state pensando, che questo articolo si apre come il classico modo di parlare dell’innovazione tecnologica e di come si stia rivoluzionando il campo dell’intrattenimento. Beh, in parte avete ragione, ma non è solo una questione di stile. Quello di cui voglio parlarvi è di come si stia aprendo una voragine dove prima c’era il gap tra produzioni indipendenti e major sulla realizzazione di prodotti cinematografici. Da una parte, l’ingresso del digitale nelle produzioni ha permesso un abbattimento dei costi e delle spese di produzione, ma anche un dimezzamento della richiesta di figure professionali, con conseguenze disastrose per il settore.

La possibilità di creare prodotti di livello anche con costi bassi ha dato la possibilità a diverse produzioni indipendenti di affermarsi sul web con maggiore grinta e professionalità, gettando le basi per un unico flusso di contenuti che ci pervade ogni giorno, senza contare le potenzialità ancora inespresse del deep web. E se è vero che un giorno internet sparirà, come afferma il fondatore di Google Larry Page, allora bisogna sicuramente correre ai ripari e cercare strade alternative di investimento.

 




Investire nel buon cinema, e ripeto “buon” per chi se lo fosse perso, significa anche creare progetti di intrattenimento che possono aprirsi a mercati polifunzionali. È per questo motivo che, ad oggi, le produzioni televisive e cinematografiche americane decidono di investire anche su altri canali, promuovendo storie trasversali come quelle tipiche del transmedia storytelling (ne avrete sentito parlare spesso su questo blog come ad esempio a questo link).

Se qualche anno fa quando il volume d’affari dei videogame superò quello generato da Hollywood, oggi si indaga sulle attitudini degli spettatori di fronte agli schermi. Non ci sorprende che dai dati emerga che le persone spendono più tempo davanti ai tablet che ai televisori, insomma.

Secondo Wired.it “le ultime cifre rilasciate da Apple relative al suo App Store ci dicono che il fatturato 2014 è aumentato del 50% e le app hanno generato entrate per oltre 10 miliardi di dollari per gli sviluppatori e che è la stessa cifra guadagnata da Hollywood nel box office lo stesso anno negli Stati Uniti.”




A questo proposito l’analista Horace Dediu ha studiato l’andamento delle produzioni digitali e ha definito un prospetto secondo cui l’app economy negli States sostiene più posti di lavoro di Hollywood (627mila vs 374mila), ha meno barriere all’ingresso ed è un fenomeno in crescita. Alcuni sviluppatori di Hollywood guadagnano più delle star di Hollywood e, in media, esistono buone possibilità che se stai cercando di sfondare come un regista potresti avere maggiore successo come programmatore web.

Ma l’aspetto più interessante non è tanto quello economico ma, ancora una volta, la svolta culturale di questa prospettiva. Tutti quei prodotti che chiamiamo tecnologia, e che entrano nelle nostre case alla velocità della luce, stanno modificando le nostre ideologie e la nostra ricezione, nel bene o nel male. Basta pensare a Netflix o ai prodotti in streaming su YouTube, ma soprattutto agli stessi device elettronici, che probabilmente tra qualche anno saranno paragonati a scoperte sensazionali come quelle del Medioevo o a opere d’arte come l’affresco della Cappella Sistina.

Non è un caso che le produzioni italiane si stiano rendendo conto dell’investimento e stanno ritagliando degli spazi di mercato per delle sperimentazioni. L’ultimo caso è quello di RAY, la piattaforma online dedicata soprattutto ai giovani fruitori dei contenuti online e televisivi della rete nazionale RAI. Inoltre, la grande maggioranza di coloro che si sono fatti le ossa sul web stanno proponendo dei contenuti per il cinema e la televisione, spesso con un linguaggio che appare un po’ forzato rispetto agli schermi del “tubo”. D’altronde, anche Keith Haring amava dipingere sul retro dei cartelloni pubblicitari perchè la tela gli trasmetteva una certa “ansia da prestazione”.

C’è sicuramente molto da riflettere, ma non bisogna criticare l’alta velocità e cavalcare l’onda del cambiamento. Certo, andremo sempre al cinema, ma probabilmente sarà come vedere il Don Giovanni all’opera, con prezzi sempre più alti e costi di produzione insostenibili. D’altronde questa cosa non la dico certo io, ma l’hanno dichiarata due signori in un incontro alla University of South California nel 2013.

Come si chiamano questi signori? GeorgeSteven. E loro di Cinema ne sanno qualcosa.